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Aprile 2013 - La ruta colombiana verso il Cabo, un viaggio ai confini dell’universo.

Venti sono le ore di bus che separano Bogotà da Rioacha, punto di arrivo, o di partenza, di questo trip memorabile nell’universo magico di Gabriel Garcia Marquez. Venti ore che scorrono come minuti nel susseguirsi di un paesaggio mozzafiato che si snoda per oltre 700 chilometri tra canyons, dirupi e imponenti montagne fino a quando all’orizzonte inizia a profilarsi il mare del caribe colombiano. Ma tropici, palme e frutta esotica aspetteranno perché io mi spingo oltre, alla penisola della Guajira, una delle regioni più remote e ambite dell’America Latina fin dai tempi della conquista.

Giungo a Rioacha all’ora di pranzo e inauguro il mio arrivo con fiumi di cerveza bien fría e pollo fritto gentilmente offerti da un paisà che vive e lavora in questa tranquilla cittadina, capoluogo della regione. Mi sistemo in un alberghetto decrepito e inizio subito la ricerca di un autobus che mi porti al Cabo de la Vela, un villaggio di pescatori di etnia wayuu situato all’estremità nord del continente. Le notizie in merito sono un po’ vaghe ma coincidono tutte sul fatto che non esiste un collegamento diretto tra Rioacha e il Cabo. Dopo un paio d’ore mi arrendo! Sembra che l’unico modo per raggiungere in solitaria l’Alta Guajira sia quello di prendere un minibus gremito di gente che scarica i passeggeri al crocevia con Uribia. Lì, armati di una buona dose di pazienza, si aspetta l’arrivo di una camioneta senza sapere con precisione “se” e “quando” passerà. Non è tanto l’incertezza sul tempo d’attesa a scoraggiarmi quanto l’idea di dover trascorrere quel lasso di tempo imprecisato sotto il solleone. Si parla di 35° all’ombra e siamo in una zona desertica… a me l’ombra nel deserto suona come un ossimoro e non mi convince! Meglio un tour organizzato con una serie di “meno” a rendergli omaggio: meno complicato, meno avventuroso, meno faticoso…

Mi rivolgo a un’agenzia che dopo varie contrattazioni mi accorda una riduzione sul prezzo ufficiale e insieme a tre colombiani e un’argentina salgo sulla Toyota a 4 porte che ci accompagnerà per i prossimi due giorni. Da Manares, dove effettuiamo una breve sosta per visitare le saline, il terreno si fa accidentato. Sembra di partecipare a un rally, con le sospensioni del veicolo continuamente sotto tensione e l’autista che gronda sudore come una fontana nel tentativo di mantenere il controllo del mezzo!!! Ma d’altronde un viaggio meno avverso non renderebbe giustizia a quest’esperienza. La sola idea di trovarmi in pieno deserto con la consapevolezza che dietro la prossima duna potrebbe materializzarsi l’acqua cristallina del Caribe è sufficiente a farmi strippare!!!

E difatti il Cabo è un miraggio che giunge inaspettato. Resto basita di fronte a un tale prodigio della natura. Blu e seppia i colori dominanti che rivelano la loro indiscutibile complementarietà nei tre elementi naturali: aria, acqua e terra. Un luogo mistico in cui la connessione con la natura è talmente forte da rigenerare qualsiasi cellula, animale o vegetale che sia.

Entriamo in questo villaggio wayuu che sembra appartenere a un’altra dimensione spazio-temporale, uno di quei posti dove il tempo prende fiato e rallenta il suo ritmo. Un’unica via polverosa lungo la quale il villaggio si anima attorno alle capanne in bambù in cui vivono i locali. Cellulare e collegamento a internet appartengono a un film di fantascienza per gli abitanti del Cabo ed è impossibile non lasciarsi sedurre da tutte quelle piccole cose di cui la frenesia del mondo occidentale ci ha privato senza nemmeno consultarci: l’assaporare la dolcezza delle ore che scorrono lente, l’inebriarsi della brezza che solleva la sabbia e che sembra voler respingere il mare, il sole che senza alcun affanno inizia a calare lasciandosi ammirare nel suo splendore per un tempo apparentemente infinito prima di congedarsi definitivamente con un sorriso malizioso e accattivante che cela un invito per il giorno seguente.

La permanenza al Cabo scorre tra ricche pietanze a base di pesce fresco accompagnato dal tradizionale riso al cocco e strepitosi patacones, spiagge di singolare bellezza e l’escursione al tramonto al Pilar de Azúcar, che secondo la tradizione wayuu sarebbe il luogo sacro ove le anime dei defunti si rifugiano per riposare e riversare sul villaggio i loro sogni di pace e tranquillità. Con una breve passeggiata ne raggiungo la cima per godere del piacere di una vista che al calar della sera assume toni surrealisti: la spiaggia sottostante appare ammorbidita dalle dune di sabbia rosata e le diverse tonalità di blu che la sovrastano si rincorrono l’un l’altra fino a sfumare nelle ultime pennellate di rosso con cui il sole ossequia i suoi spettatori. Il tutto sullo sfondo di un paesaggio desertico in cui piccole oasi, circondate di cactus a candelabro, si perdono nell’immensità del mio sguardo.

La notte giunge inattesa e mi regala un altro di quei momenti che mi accompagneranno a lungo. Spaparanzata in un caldo e accogliente chinchorro, mi lascio cullare dalla brezza marina con il suono delle onde in sottofondo e mi perdo tra le migliaia di stelle che avvolgono l’oscurità. Sono così vicine che arrivo a sentirmi parte dell’universo …

Diana Facile 

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